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Brindisi: una città ancora da scoprire, ancora da studiare.

Incastrati fra i paramenti murari dei suoi edifici, di tanto in tanto, emergono frammenti della sua storia, tessere di un puzzle che aspetta di esser ricomposto.

Un tempo, ben lontano dal consumismo odierno, i materiali pregiati (come il marmo, che proveniva generalmente dall’Oriente), non erano così facili da reperire; per questo motivo il fenomeno del recupero e del riuso di manufatti antichi, all’interno di nuovi contesti, costituisce una pratica molto diffusa nel Medioevo: molti edifici furono infatti costruiti riutilizzando i materiali provenienti da ciò che rimaneva di Brundisium (Brindisi romana).
Ne è un esempio la romanica chiesa di San Giovanni al Sepolcro: le basi, i fusti e i capitelli decorati delle colonne e semicolonne presentano un insieme eclettico di elementi, pietre e marmi, in gran parte di reimpiego. Un eloquente testimonianza di reimpiego è l’iscrizione latina, che si trova nella parte posteriore di uno dei leoni stilofori posti all’ingresso del portale nord.
Anche alcuni resti marmorei dell’abbazia di Sant’Andrea, ora custoditi nel museo, mostrano segni di riutilizzo, come ad esempio un capitello in stile romanico realizzato su un’epigrafe romana. Come testimoniato da fonti storiche, nel 1485, quando venne distrutta l’abbazia di Sant’Andrea, che era stata costruita sull’isola poco fuori il Porto, per costruire il castello Alfonsino, molti elementi decorativi marmorei vennero trasportati in città. Questi furono reimpiegati, ancora una volta, per edificare la chiesa del Carmine (distrutta nel XVIII secolo), che si trovava sull’omonima via. Di questi elementi architettonici potrebbe far parte l’architrave decorato con foglie di acanto spinoso e figura zoomorfa inglobato nel Calvario.
Altre testimonianze di reimpiego, questa volta realizzato in periodi più recenti, sono i massicci blocchi di pietra, solitamente in marmo, aventi la funzione, fino a diversi decenni fa, di proteggere gli angoli e i margini dei palazzi dai carri che percorrevano queste antiche vie, chiamate nel medioevo ruè.
Fra i tanti si possono riconoscere cippi marmorei e rocchi di colonne, a volte scanalati, tra cui quello che si trova sull’angolo di un palazzo dei primi del ‘900 di Via Villanova, sul quale si nota il foro centrale, tipico dei rocchi che formano il fusto delle colonne. In altre parti della città possiamo notare altri rocchi, questa volta completamente lisci come, ad esempio, quello posto ad angolo tra via Montenegro-Piazza San Teodoro D’Amasea, o ancora all’angolo della chiesa medievale di Sant’Anna. Altri paracarri sono cippi marmorei, come quello esposto nel cortile del Museo Archeologico “Francesco Ribezzo” di Brindisi, sul quale vi sono delle iscrizioni latine.
Ritenendo necessario che tali elementi debbano essere inventariati e tutelati, a tal proposito, il Gruppo Archeo Brindisi ha inviato una richiesta alla Soprintendenza dei Beni archeologici e alla sezione Beni Monumentali del Comune di Brindisi.
“Il nostro timore è che essi possano essere, nel corso degli anni, distrutti o danneggiati da operai o costruttori ignari, o vandalizzati come spesso già accade. Inoltre suggeriamo, per i più importanti/rappresentativi, una rimozione per permetterne lo studio e una collocazione in un luogo più consono alla salvaguardia (atrio del museo archeologico, giardino di San Giovanni al Sepolcro o bastione).”

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