A Papa Francesco
Casa Santa Marta
00120 Città del Vaticano
Al Nunzio Apostolico in Italia
Mons. Emil Paul Tscherring
nunziatura.apostolica.italia@pec.it
ROMA
Un anacronismo feudale vive ancora nella chiesa italiana: l’attuale modo di nominare i vescovi.
La riforma della Chiesa cattolica, riforma non più procrastinabile, più volte annunciata da papa Francesco, non può trascurare, tra i tanti problemi strutturali che devono essere affrontati, quello della scelta e dell’elezione dei vescovi.
Una riflessione su questo tema non è facile ma è necessaria ed irrinunciabile per chi vorrebbe non un’altra Chiesa ma una Chiesa diversa.
La crisi della chiesa gerarchica non è una invenzione nostra. Se esiste un problema di credibilità, se il Vangelo oggi fatica a passare, senza cercare alibi, dobbiamo riconoscere che questo avviene soprattutto per la responsabilità, per l’inadeguatezza della struttura ecclesiastica.
Ne consegue che la attuale crisi ecclesiastica non può essere sbrigativamente addebitata alla sua base, al dilagare delle mode contrarie al Vangelo, al mondo con i suoi vizi e la sua invadente contrarietà al sacro. Né può essere responsabilità dei laici non riuscire a trovare parole capaci per dialogare con un tempo in rapida trasformazione, considerato che i laici nella chiesa, nonostante la loro generosa presenza, non hanno alcuna responsabilità nelle scelte di governo. Sappiamo quanto sia ancora lunga la strada per un laicato consapevole e protagonista ma sappiamo anche che il processo di nomina di un vescovo deve essere un “processo ecclesiale”, che non può essere trattato come una questione “privata”, e che la questione non può essere rinviata o, peggio, ignorata.
Chi potrà prendere sul serio la “paternità episcopale” in una gestione così opaca delle nomine episcopali?
Certamente ci sono e ci sono stati vescovi di grande spessore, ma è sotto gli occhi di tutti di quanta imbarazzante mediocrità sia pervasa la comunità episcopale e di come le diocesi e i fedeli debbano accontentarsi di quello che passa il convento: vescovi calati dall’alto, il più delle volte senza tenere conto del bene delle Chiese locali; scelte di nuovi vescovi determinate più per calcolo corporativistico, per rispondere alle pressioni di cordate e per soddisfare l’autorità narcisista degli stessi vescovi proponenti, che individuano i futuri candidati per germinazione cellulare, a mo’ di clonazione, perché possano essere quanto più uguali a chi li ha scelti, e di sicuro, come avviene nel procedimento di scissione, più deboli della cellula madre, tutti con una predisposizione ad un odiosa autorefenzialità.
La nomina dei vescovi, perciò, è un problema enorme che tocca il cuore del potere ecclesiale e sul quale il silenzio di laici e preti appare singolare e strano. Non ci si può lamentare, a nomina avvenuta, se un nuovo vescovo interrompe o cancella un lavoro di decenni di una chiesa locale e se le alate affermazioni della Lumen Gentium sul primato del popolo di Dio, uomini e donne, rimangono retoriche e vuote.
Con parresia diciamo, quindi, che le attuali modalità di nomina dei vescovi in Italia non sono più compatibili con una Chiesa che, sulla scia del Concilio, sia lievito del mondo, portatrice di esigenze di giustizia, proclamatrice delle ragioni della pace, delle cause dei deboli e degli oppressi.
Vorremmo, con le dovute modalità attuative, che l’antica tradizione della chiesa che vedeva vescovi come Ambrogio eletti dal popolo, fosse ripristinata.
Un nuovo vescovo sta per essere nominato per la Diocesi di Brindisi-Ostuni.
La comunità locale aspetta, passiva, che sia nominato dall’alto il successore.
Con i limiti di chi nelle scelte di vita cerca di fare riferimento al Vangelo senza zavorra e alla Costituzione italiana, se non ancora è possibile un “processo ecclesiale” per la nomina del nuovo pastore della diocesi di Brindisi-Ostuni, sentiamo la necessità di esprimere le nostre riflessioni e i nostri convincimenti in coscienza, con questa lettera aperta.
Non vogliamo darvi dei nomi ma affidarvi alcune caratteristiche che corrispondono alle necessità di questa comunità e ai suoi doveri di testimonianza verso la società in cui vive.
Non serve che il nuovo vescovo sia un buon amministratore quanto un evangelizzatore che metta al primo posto la gioia del Vangelo da condividere quotidianamente con tutti.
Noi qui in Puglia abbiamo vivo il ricordo del vescovo don Tonino Bello e vorremmo ardentemente un pastore come lui. Egli, se oggi fosse tra noi, aderirebbe non verbalmente ma concretamente al magistero di papa Francesco, terrebbe ancora il suo episcopio con le porte sempre aperte a tutte le ore del giorno per ricevere tutti senza appuntamento e senza protocolli, un vescovo che dava la preferenza ai più impoveriti e alle vittime di ingiustizie e razzismo e che era del tutto disinteressato a coltivare amicizie e relazioni con i potenti.
La nostra diocesi si trova in una provincia con il reddito più basso della regione, alta disoccupazione, lavoro precario e insicuro, emigrazione giovanile e invecchiamento della popolazione, livello di istruzione tra i più bassi d’Italia, spopolamento, servizi pubblici essenziali carenti, criminalità organizzata saldamente insediata, corruzione e pubblica amministrazione in più casi asservita a interessi di parte, una diffusa cultura misogina e maschilista, un inquinamento ambientale difficilmente sanabile. La sua economia è caratterizzata da grandi concentrazioni di servizi e poca manifattura. Questa situazione è figlia di una mentalità nella quale la competizione per la ricchezza e per l’accaparramento del denaro rappresenta per molti lo scopo principale della vita. Tutto ciò genera disuguaglianze e sfruttamento. Eppure, nelle comunità cristiane ed anche al di fuori di queste sono tante le pratiche, di singoli e di gruppi, che testimoniano come una società diversa e alternativa, cioè solidale e amichevole, è possibile.
La vita diocesana, in cui non mancano semi nascosti di fermenti evangelici, soffre di un clericalismo accentuato, ha sofferto per alcuni casi di pedofilia di esponenti del clero, fatica a staccarsi da un cattolicesimo sociologico, in essa la profezia latita, vive di molta rassegnazione e di poca speranza in un possibile cambiamento.
Per questo il vescovo che verrà dovrà sentire il compito di guidare la comunità verso una testimonianza evangelica di sempre maggiore fraternità, senza le insegne del potere, un vescovo che appena può scenda per strada, che visiti le case dei malati e dei poveri, che frequenti l’ospedale, che non taccia dinnanzi alle ingiustizie e alla distruzione sistematica dell’ambiente, che testimoni con gesti concreti la parità tra donne e uomini, che inviti la pari dignità tra i battezzati e contrasti il clericalismo, che condivida la vita del popolo, che non predichi la rassegnazione ma annunci la liberazione del Vangelo, che affermi in nome di Gesù Cristo, insieme alle altre confessioni cristiane presenti in diocesi, il primato assoluto della Pace contro ogni giustificazione della guerra e delle armi. Per far questo non occorrono convegni e giornali ma un lavoro profondo di presenza, ascolto e formazione delle coscienze.
Vorremmo che con il nuovo vescovo si interrompa il ferreo uso del trasferimento da un’altra diocesi, perché il vescovo non è un prefetto o un funzionario ministeriale che debba ambire ad una sede più prestigiosa, l’epoca costantiniana dovrebbe essersi conclusa.
Escludete pertanto tutti coloro che vogliono venire a Brindisi, quelli che chiedono intercessioni e ambiscono a cattedre elevate. Per questo vorremmo che voi sceglieste tra i tanti parroci che ci sono in Italia, preti e uomini esemplari, non carrieristi e che non hanno studiato da vescovi ma da semplici pastori. Ve ne sono moltissimi in Italia che hanno promosso comunità vive, che hanno anteposto a tutto l’effimero e alla pompa il dialogo sempre aperto con la cultura in nome del Vangelo, il servizio quotidiano ai poveri e agli ammalati, l’ascolto attento ai segni dei tempi, alle altre culture e alle altre religioni e l’amore per lo studio finalizzato alla liberazione e non al potere e al successo. Un vescovo per il quale tutti i battezzati sono allo stesso livello, sconfiggendo la tentazione del clericalismo.
Scrivevamo nel 2014:
Il potere di governare una chiesa locale deriva al vescovo dall’essere testimone della Resurrezione di Cristo e il suo potere giuridico e amministrativo è basato ed è secondo a questa testimonianza. A riguardo, commuove rileggere il “patto delle catacombe” che il 16 novembre 1965 quaranta vescovi, padri conciliari, firmarono a chiusura del Vaticano II[1]; fra l’altro è scritto: «Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti… saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione (Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tm 3, 8-10)».
La semplicità evangelica delle proposte di vescovi (e non di pazzi contestatori), che vissero ciò che sottoscrissero, cozza con la dura realtà e con le contraddizioni di altri modi più mondani e meno evangelici di governare una chiesa locale.
Carissimo papa Francesco e gentilissimo arcivescovo, auspichiamo che colui che sceglierete sia un vescovo disposto ad avere come faro del ministero episcopale quel Patto delle Catacombe che è uno degli impegni più importanti maturati negli anni del Concilio Vaticano II.
Brindisi 11/10/2022
60° anniversario dell’apertura del CONCILIO VATICANO II
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