Un altro titolo per Francesco Lenoci: ambasciatore della cultura sammarchese e garganica nel mondo. San Marco in Lamis, cittadina che arieggia poco distante da San Giovanni Rotondo, dove visse san Pio e troneggia il Santuario di San Matteo, vanta abitanti che si sono sempre distinti per la loro laboriosità e per l’attaccamento alla loro terra. Una volta popolata da abili artigiani del ferro e del legno, famosi e apprezzati ovunque. In questo paese Francesco Lenoci è tornato spesso, coltivando tra l’altro una solida amicizia con il preside Raffaele Cera e manifestando il suo amore per il dialetto, tutti i dialetti, e la sua passione per la Puglia, dove in molte città e piccoli centri ha tenuto conferenze, dibattiti, su costumi, storia, architetture, tradizioni, valori di ogni genere, dalla sartoria alla ceramica al cibo. 

Personalità eclettica, Lenoci. Nato a Martina Franca, dove torna spesso, non soltanto d’estate, a respirare l’aria purissima, a bere il sole, a inebriarsi dello splendore magico che la sua “culla” possiede: laurea a Siena, servizio militare a Cagliari, docenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ufficio e residenza nel capoluogo lombardo, in piazza Diaz, nella Terrazza Martini. Lenoci è persona dinamica, coltissima, ricca di interessi non soltanto intellettuali. È una specie di vagabondo della cultura, di viaggiatore mai stanco di prendere treni, aerei, taxi, per raggiungere luoghi anche lontani: oggi all’Aquila per un incontro con lo scrittore migratore Goffredo Palmerini (non c’è angolo del mondo che non conosca, come risulta anche dai libri che scrive). 

Francesco Lenoci conosce bene L’Aquila, la sua bellezza, i suoi respiri, le sue ferite. E ci è tornato, quando ha potuto. Non un atterraggio e via. Lo stesso a Verona, per prendere la parola a un’iniziativa messa in opera dall’amico fotografo Cataldo Albano, per poi visitare la città e rendere omaggio ai suoi monumenti. Qualche volta io l’ho seguito: a Grottaglie, ad ascoltare il suo racconto dei manufatti in terracotta; a Massafra, a vedere le opere messe in piedi dal poliedrico Peppino Montanaro, come la vigna a onde e la galleria di ulivi, una magnificenza da Guinness dei primati. Ogni volta che l’ho accompagnato mi sono sentito arricchito, incontrando persone, ascoltando discorsi, partecipando a cene di beneficenza, oggi per costruire un ospedale in Kenya, domani una scuola.  

Una sera eravamo invitati da Dely Giuliani Gatti e da suo marito membro del Rotary Club in un ristorante di Merate. Andando in auto ed essendo incerto della strada, accesi il navigatore. Dopo un’ora di viaggio ci trovammo in campagna, al buio. “Ci siamo persi, Francesco”. Lui voltò lo sguardo a destra e disse: “Il locale è lì, poco più avanti, vedo delle luci”. Lui parlò di economia e il presidente di un istituto di credito commentò: “Quando parla Lenoci lo capiscono tutti, anche quando s’inoltra in argomenti difficili”. Capii anch’io, che di quella materia non capisco una mazza. Lui a volte ricorre anche alle fiabe per spiegare un concetto, rendendolo accessibile. Apprezzai molto le pietanze che ci vennero servite. Il casaro Fragnelli della città dei trulli, arrivato apposta, fece le mozzarelle sotto gli occhi degli ospiti.

A Santa Maria di Leuca, parlò alla presenza di vescovi, sacerdoti e intellettuali, studiosi di don Tonino Bello. Prima mi portò nella sua casa, ad Alessano, poi sulla sua tomba. Del prelato don Tonino, di cui è in corso il processo per la beatificazione, è molto devoto. Legge i suoi scritti, assimila i suoi insegnamenti. Lo legge, lo studia, lo prende ad esempio. Don Tonino fa parte della sua vita e del suo cuore. A furia di sentirlo parlare di questa figura eccellente, anch’io ho cominciato a prendere in mano gli scritti del vescovo di Alessano, che a Santa Maria di Leuca, quella sera di alcuni anni fa, venne ricordato da molti testimoni, anche laici, che lo avevano conosciuto e amato. Folto il pubblico, tra cui mamme con bambini. Qualcuno riferì che a Santa Maria di Leuca, definita una sorta di conca che dolcemente scende al mare, don Tonino arrivava anche a nuoto partendo da Novaglie, un borgo di pescatori incastrato tra pareti gigantesche. Lo rivedo in fotografia, don Tonino, con quel suo sorriso comunicativo che conquista. Nella sua casa di Alessano puntai l’obiettivo sul suo letto, sui suoi libri e colsi Lenoci in atteggiamento di preghiera. 

C’è un paese o città della Puglia che questo docente sempre in movimento non abbia toccato? Non credo. Al Castello Aragonese di Taranto è stato ripetutamente per parlare di una mostra fotografica di Albano su Matera e poi di una su Taranto dello stesso maestro dell’obiettivo. Quando ebbe lo scapolare nella Chiesa del Carmine a Martina mi telefonò commosso. Commosso lo vidi alla funzione in chiesa per la morte della mamma, Maria. A un certo punto del suo breve discorso urlò “Te lo prometto mamma”, emozionando la folla assiepata dal presbiterio al portale. Si commuove quando parla del papà Martino, scomparso anche lui. Uomo molto generoso, di pochissime parole. Comunicava spesso con lo sguardo. Mi raccontava, Francesco, che le sue giacche personali non avevano più bottoni e ogni volta che doveva uscire faceva infuriare la moglie. Motivo? Era un maestro nell’arte dell’ago e del filo, e se confezionando un vestito non aveva un bottone giusto lo toglieva da un suo capospalla, in attesa di potersi rifornire.  

L’ho conosciuto, Martino. Sono stato anche a casa sua. Molto credente come la moglie, riservato, amabile. Una sera a una manifestazione organizzata dall’avvocato Elio Greco, presidente della Fondazione Nuove Proposte, Francesco ricevette un premio, uno dei tanti. Martino era seduto vicino a me. Non ebbe alcuna espressione, ma capii che era contento, orgoglioso di quel figlio, come il figlio era orgoglioso di lui. Francesco Lenoci è “Patriae Decus” di Martina Franca dal 2002. Il suo nome non è nella lista di marmo incassata in una parete all’ingresso del municipio: non c’è più spazio, la sostituiranno. 

Intanto Francesco Lenoci riprende i suoi giri culturali, le sue conferenze qua e là. Quando torna a casa riprende il suo lavoro e presenta libri interessanti: l’ultimo il libro fotografico di Enzo Rocca e Alberto Scibona, “Milano storie minime” (la strada è vita, la vita è teatro, la strada è teatro). È sua la bellissima prefazione all’interessante volume “Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria” di Maria Carmela Ricci e ha pubblicato trentasette volumi di finanza aziendale, ragioneria e revisione. Insomma, un intellettuale dalla cultura classica ed economica che sente il bisogno di comunicare il suo sapere e di apprendere, di vedere cose nuove, di scoprire ciò che non appare, di descrivere, scolpire luoghi, personaggi, di assorbire atmosfere, individuare modi di vivere, visitare città, paesi. E come docente? Quello non sta a me giudicare. So comunque che le sue lezioni sono seguitissime e che i suoi studenti lo amano. Alla serata a Martina dedicata alla presentazione del libro “Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria” è arrivato da San Marco in Lamis con dieci minuti di ritardo e la conduttrice ha detto: “Come promesso, all’arrivo del professore, avremmo dato inizio alla serata”. Tutto testimoniato da “Teletrullo”, che a suo tempo lo ha intervistato. 

A San Marco in Lamis lo hanno accolto festosamente. E lui: “Ho avuto la fortuna di conoscere il Preside Raffaele Cera 15 anni fa, il 29 marzo 2008, a Milano.  Riesco ad essere così preciso, perché quello fu un giorno speciale: festeggiammo a Milano, presso l’Istituto dei Ciechi, i primi 30 di vita delle Edizioni del Rosone, con un convegno dal titolo “La Puglia con la Capitanata a Milano: occasioni letterarie, enogastronomiche, economiche”. Per il combinarsi delle combinazioni, ieri pomeriggio, al mio arrivo a San Marco in Lamis, la prima cosa che ho visto è stato l’Arco di Antonio Pio Saracino, con la targa che riporta le parole di Joseph Tusiani: “Qui rinasco e dico all’Aure: O mistero di gloria/ dove nascere è bello/ io sono nato”. 

Subito dopo Lenoci ha ricordato l’incontro con Tusiani il 30 settembre 2010 presso il Teatro del Giannone a San Marco in Lamis. “Stamattina il Preside Raffaele Cera mi ha portato a vedere “Il Sentiero dell’Anima” di Filippo Pirro, che sua moglie Anna e i figli portano commendevolmente avanti. Ebbene, per il combinarsi delle combinazioni, lì c’è un percorso dedicato a Giacomo Leopardi…”. E si è avviato alla conclusione citando don Tonino e la sua definizione di cultura: “Impegno, servizio ad altri, promozione umana come il riconoscimento della persona libera, dignitosa e responsabile. Cultura è cemento della convivenza, orizzonte complessivo, strumento di orientamento, alimento di vita.” Parole di un profeta.