Mi sono chiesto da quando è iniziata la nostra assenza da questo “teatro all’aperto” che è il mondo, se fosse o meno il caso di scriverci su qualcosa.
Da quando abbiamo dovuto lasciare nostro malgrado le strade e i luoghi in cui abitualmente svolgiamo la maggior parte delle nostre attività sociali per trasferirci in maniera continuativa nelle nostre stanze più private e intime, mi sono reso conto di quanto la nostra vita sia spostata verso l’esterno di noi stessi invece che all’interno.
Abbiamo riempito le nostre giornate di cose da fare, molto spesso legate al nostro lavoro, tanto da essere probabilmente diventati noi stessi quel lavoro. Non abbiamo sopportato il silenzio che ci è piombato addosso e che ha riempito di suoni interiori le giornate. Le nostre voci hanno cominciato a risuonare nelle nostre stanze e ad avere una eco diversa a cui non eravamo abituati. Ci siamo ritrovati da soli nelle nostre cattedrali personali, e improvvisamente le nostre case ci sono apparse come gabbie dorate. Abbiamo continuato a replicare le nostre abitudini non più in maniera meccanica, ma soffermandoci a pensare a quello che stavamo facendo. E ci siamo visti e scoperti diversi. Le nostre abitazioni, che fino a quel momento erano il nostro rifugio dal mondo, sono improvvisamente diventate le stanze che ci separavano dal mondo stesso. Abbiamo spostato i confini che avevamo di noi stessi, entrando in contatto con le nostre parti più fragili. Ci siamo sentiti tristi, spaventati, ammalati dentro. Abbiamo avvertito la decadenza del mondo intero, il declino sociale, economico, culturale e politico; l’involuzione della nostra vita e del nostro lavoro e dei nostri comportamenti. Abbiamo sentito dolore perché abbiamo scoperto di sapere ancora pensare ma di essere impossibilitati ad agire, perlomeno temporaneamente. Abbiamo vagato per le nostre case come zombie, frustrati tra chili di cibo e pensieri, guardando armadi colmi di vestiti e cercando tra le nostre cose dimenticate le rimanenze di noi stessi. Ci siamo sentiti smarriti. Ecco che cosa hanno generato i nostri giorni di quarantena: incertezze, dubbi e solitudini. Tutto, tranne quello che occorreva davvero: il silenzio.
Ho odiato tutti i cantanti che non sono stati zitti nei loro appartamenti, gli attori che hanno sentito il bisogno di dire la loro, i ballerini che hanno danzato nei salotti come animali in gabbia, e tutti i canti sul balcone e i flash mob a cadenza regolare che ci hanno trasformato in protagonisti di un teatrino macabro e grottesco andato in scena sui social e amplificato dalla tv. D’accordo, ognuno reagisce come sa e come può, ma abbiamo cantato e urlato mentre gli ospedali si riempivano di ammalati, mentre carri militari trasportavano morti da una parte all’altra d’Italia.
Era il momento di stare zitti e di riscoprire l’inconscio. Di riflettere su chi siamo e dove stiamo andando, di chiederci se ci fosse ancora posto per noi. Il mondo ha dimostrato di poter andare avanti anche senza la nostra presenza ingombrante; senza quel gran baccano che sappiamo generare, senza i nostri soprusi sulle altre specie e sulla natura. Abbiamo visto le città ferme e vuote, senza automobili e smog. Il mondo senza di noi ci è sembrato bellissimo ma spaventoso allo stesso tempo. Ci ha fatto paura la nostra assenza. Abbiamo riflettuto, forse. Ora, io non credo che la gente sappia bene come si sia sentita, si sente o come debba sentirsi in futuro. Ma è quasi tempo di tornare alle nostre vite e seppur ancora sgomenti e turbati, siamo pronti per tornare nelle strade. Non è vero però che da questa esperienza ne usciremo migliori. Ne usciremo a pezzi, frustrati, arrabbiati e probabilmente tutti un po’ più poveri. Ma non di denaro, quello va e viene. Abbiamo perso molte vite umane, persone perlopiù anziane che rappresentavano la nostra storia, il nostro passato. E ci siamo accorti che senza passato non ci può essere un futuro, che dobbiamo cercare di tenere a mente chi siamo davvero e quale sia la nostra vocazione se non vogliamo soccombere. Abbiamo scoperto di avere un’anima e abbiamo fatto luce in quegli angoli bui di noi stessi in cui ci avventuriamo poco per paura. Forse sappiamo più cose, ora, forse abbiamo ritrovato quel filo che ci lega all’essenza dell’uomo, alla nostra natura di esseri pensanti. Allora proviamo ad essere davvero quegli uomini e donne “nuovi” di cui abbiamo sentito parlare. Prima di tornare ad essere gli stessi, restiamo ancora un po’ a scrutarci dentro, a toccare con la punta delle dita la nostra consistenza, ad assaporare quella sensazione di infinito e solitudine che ha pervaso queste giornate strane. Prima di tornare alle nostre occupazioni, restiamo ancora un po’ a guardare le stelle e a sentirci come loro, piccoli punti immensi che splendono per un attimo nell’universo e che poi scompaiono nell’eternità. Ma prima di cadere facciamo in modo che le nostre scie luminose possano lasciare luce e bellezza al nostro passaggio.