Nel 1991 la storia albanese mise sulle rotte del porto di Brindisi un bisogno incompiuto di civiltà in cerca di una sponda migliore. Brindisi rispose. Offrendo un riparo all’odissea di stenti e di privazioni di ventimila persone. 

Domenica 7 marzo alle ore 18, esattamente trent’anni dopo, il Nuovo Teatro Verdi, con il sostegno del Teatro Pubblico Pugliesepresenta in streaming lo spettacolo «Non abbiate paura. Grand Hotel Albania», un monologo di Francesco Niccolini con Luigi D’Elia che rivive in un nuovo allestimento con un ensemble transadriatico composto da Claudio Prima (organetto e voce), Nevila Cobo (violino) e Merita Alimhillaj (violoncello). Apertura con un’intervista del giornalista Antonio Celeste al premier albanese, Edi Rama, al sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, e al primo cittadino dell’epoca, Giuseppe Marchionna, la cui testimonianza avrà il compito di ricostruire quelle giornate drammatiche, la mobilitazione delle istituzioni e lo straordinario slancio della comunità brindisina.

Lo spettacolo sarà trasmesso online sulle pagine Facebook di Fondazione Nuovo Teatro VerdiComune di BrindisiRiccardo Rossi Sindaco di BrindisiTeatro Pubblico PuglieseCarmelo GrassiAgenda Brindisi, Brindisi Cronaca, Brindisi Oggi, Brindisi ReportBrindisi TimeBrundisiumL’Ora di Brindisi, NewspamNuovo Quotidiano di Puglia online, e sulla web-tv Apulia (apuliawebtv.it). E ancora sul canale Youtube della Fondazione Nuovo Teatro Verdi. Oltre che sulle pagine social, lo spettacolo e la storica ricorrenza saranno al centro di uno speciale palinsesto di Rai Radio3, che all’occasione dedica un focus all’interno del programma Zazà, in onda domenica 7 marzo alle 15, per poi trasmettere alle 22.30 dello stesso giorno la replica del monologo per il Teatro di Rai Radio3

Un racconto per la città, i suoi cittadini e l’Italia intera che attraverso la lente dei trenta anni restituisce tutta l’umanità e l’eccezionalità di quell’incontro straordinario fra i novantamila brindisini e i più di ventimila albanesi. Rivive in un Nuovo Teatro Verdi significativamente vuoto la storia di un naufragio umano di ventimila corpi che poteva essere la scintilla di un’apocalisse e non lo fu. Per converso diventò una delle pagine di dignità che più vale la pena di ricordare oggi, in questo mondo disinfettato, “distanziato” e spaventato.

I fatti del ’91 diventano un’occasione per ricordare. Per comprendere come mai ancora oggi ci sia bisogno di cercare pace oltre il mare. Un momento corale, una biografia collettiva della città e di quel sentimento che nel marzo di trent’anni fa ha trasformato Brindisi in un Porto di Pace. Si evocarono allora eventi biblici per spiegare che nella vita di ognuno di quei ventimila affamati di libertà stava per accadere qualcosa che non si sarebbe mai più dimenticato. Una sponda familiare. L’abbraccio di una città, quella con i suoi problemi atavici che di lì a poco avrebbe dischiuso una frontiera nuova, un percorso che cominciava alla fine di cinquant’anni di regime e di repressione. Le onde mosse da quei barconi pericolanti investirono la gente di Brindisi oscurando per un po’ la routine e i problemi di ogni giorno.

A distanza di trent’anni da quello che fu insieme un drammatico esodo e il primo guscio della libertà, l’Europa è profondamente cambiata, la geopolitica ha ridisegnato i confini della civiltà, la dimensione europea è entrata nel quotidiano di ciascuno, nella cifra dello sviluppo dei singoli territori, il dramma della migrazione ha assunto connotazioni più ampie, in senso antropologico e geografico, aprendo dibattiti serrati, a volte avvelenati. Ma sullo sfondo rimangono Brindisi e la sua comunità, con quella ospitalità connaturata che la storia non può cambiare, che nessuno può cambiare: «Non sto nella pelle e ascolto quello che accade in me e intorno – ha detto Luigi D’Elia –. Proprio ora che viviamo distanziati e con la mascherina, ora che i teatri sono chiusi, proprio ora che raccontare in un teatro vuoto ha tutta la forza del vuoto che questa storia lascia nella pancia. Il racconto non è la cronaca di un’accoglienza, non è il documentario dell’approdo, è luce su un tratto di storia che ci dice come siamo cambiati, cosa è diventata l’Europa e cosa siamo diventati noi nel grande blob comunitario. Cosa siamo oggi dopo tre decenni che hanno prodotto disincanto, depotenziato il sogno e aggiunto periferie a periferie. Mentre oggi un’ondata più strisciante e subdola, quella pandemica, ruba la scena al flusso dei migranti».  

Lo spettacolo di D’Elia rilegge una pagina dolorosa che la storia ha trasformato, lungo un non sempre lineare percorso trentennale, nel riscatto di un popolo e nella completa integrazione dei tanti migranti che furono accolti. Migliaia di storie che s’intrecciano tra loro fino a diventare il filo conduttore di una narrazione che si propone alla città, e all’Italia intera, come un momento di riflessione collettiva.