Quando la neve cade lievemente e stende un tappeto candido sul paesaggio è una gioia. Ma quando fiocca veloce e abbondante, si gonfia come la panna e seppellisce le case, suscitando ansia e creando problemi enormi, è un dramma. Nel 1956 Nina aveva soltanto cinque anni; eppure osservava sorpresa e sbigottita quella grande nevicata che prese d’assedio le case, impedendo ai contadini di mettere piede fuori dei trulli per rifocillarsi. 

L’elicottero provvide, dove riusciva, a lanciare il cibo dall’alto; e quando la gente tentava di aprire la porta, per cercare nello sgabuzzino qualcosa da mettere in bocca o nel pollaio per prendere una gallina, si accorgeva che quella difesa era… puntellata: la neve si era fatta molto alta e spessa, e continuava a cadere come pezzi di bambagia. Nina tremava anche per il freddo, aveva fame, come papà e mamma, e come tutti quelli imprigionati in quella massa bianca. Il camino era spento e nella credenza c’era solo un pezzo di pane secco e una piccola spolverata di farina. Tutti si domandavano, spaventati: “Quando potremo una via di sbocco in questo accerchiamento?”

   Oggi Giulia – la bambina del racconto che nel ‘56 aveva 5 anni – è una bellissima signora, elegante, un sorriso dolce, laureata in scienze biologiche, già insegnante di matematica nelle scuole superiori, marito tenore dalla voce potente come il tuono, e tesse abilmente e con tocchi di poesia la trama di “Quella nevicata del ‘56 in Valle d’Itria”. Pagine bellissime, avvincenti, scritte con uno stile limpido, cristallino, che scorre come l’acqua di un ruscello che si può bere raccolta nei palmi delle mani. Le ho lette avidamente, con gioia, senza farmi mai distogliere dagli odori della cucina o dalle telefonate.

  Il racconto cattura subito l’attenzione, trascina il lettore, lasciandogli immaginare di essere lì, nel contesto, con Giulia e tutti gli altri bloccati, imprigionati da una barriera solida e inattaccabile anche dal piccone. “Mi sembra di essere diventato l’orso della candelora”, disse tatà Martino. E subito suscitò perplessità: “Chi è costui?”. È pericoloso, azzanna, sbrana? “Quando la ‘canulore’ è chiara l’orso si fa il pagliaio e se si fa il pagliaio l’inverno è duro e lungo”. Un modo di dire, una credenza antica, come tanti nel mondo contadino.

   “Il 3 febbraio si svegliarono di buonora, cercarono di aprire la porta d’ingresso e trovarono resistenza; le finestre erano, anche quelle, ostruite. Si accorsero che un’“abbondante nevicata nella notte aveva ammantato la Valle d’Itria e aggiunto magia al già magico paesaggio della vallata”. Ma nessuno avrebbe potuto pensare che quella montagna di neve “si sarebbe protratta per quasi un mese e che sarebbe stata ricordata come la nevicata del secolo”. Tante famiglie che abitavano in campagna, nel trulli, nelle “casedde” rimasero circondate, come un forte dagli indiani. Le famiglie avevano tra l’altro bisogno della legna da mettere nel camino e quella che era già in casa era poca per accendere il fuoco e per di più umida.

   Carmela Maria Ricci, l’autrice di questi ricordi, ha letto tanto, nella sua vita. Andata in pensione, ha coltivato con più passione la poesia, la narrativa, la pittura. E quando ha deciso di sedersi davanti al computer per raccogliere fatti, personaggi e ambienti di 68 anni fa non ha avuto difficoltà a smuovere la memoria, componendo un libro che è come un ritorno al passato, che nonostante sacrifici, delusioni e speranze, a volte ci fa stare meglio.

   Presentata da Francesco Lenoci e pubblicata da Giacovelli editore (sede a Locorotondo), l’opera viaggia in quasi tutt’Italia, riscuotendo meritati consensi. A Milano ha fatto capolino nella sede del Libraccio, sull’alzaia Naviglio Grande, davanti ad un pubblico attento e colto. 

   Quanti ricordi, in queste 200 pagine. Ricordi vivi, che si susseguono con un bel ritmo. Nina, che, fattasi adulta, all’epoca invocava ripetutamente l’estate, lamentando i geloni ai piedi e alle mani, non ha dimenticato un minuto di quelle giornate. “Se l’anno prossimo sento qualcuno dolersi del caldo gli rompo la testa”, esclama un personaggio racchiuso in queste pagine.

   Carmela è davvero brava: descrive in modo icastico paesaggi, persone, luoghi: il lavoro contadino, che “sradica i sassi dalla terra”, rende gravide le viti, trasforma il loro sangue in vino, semina, raccoglie, quando la grandine non bombarda il frutto del suo sudore. Ricorda le danze sulle aie, i canti, i suoni, le botti di vino, occasioni per far fiorire un amore.

   Nei giorni della nevicata faceva un freddo cane, mentre d’estate, dice un altro personaggio, se si voleva bere un bicchierone di nettare fresco occorreva immergere la bottiglia nel pozzo. Maria Carmela Ricci ha una memoria fertile e generosa, che evoca anche le neviere. “A quei tempi a Martina, durante l’inverno alcune famiglie, che lo facevano per mestiere, usavano stipare la neve in appositi magazzini sotterranei, scavati nella roccia…”. D’estate veniva venduta ai caffettieri, che la usavano per tenere fresche le bibite e confezionare le granite o alle famiglie per gli stessi scopi.

    “Quella nevicata del ‘56” dunque non trascura nulla. E ripesca gli usi e i costumi… I fichi più pregiati, tagliati a metà, venivano allineati sui cannizzi (le “sciaie”); diventati secchi, venivano racchiusi con una mandorla all’interno. I fichi e le pere malandati erano dati in pasto ai maiali in apposite “pile”. Ed ecco la fiera della Bamminella, della Madonna Bambina, che si svolgeva a settembre a Cisternino. Nel paese delle braci deliziose si allestivano le bancarelle con sacchi di legumi, frutta secca… mentre i mercanti di bestiame intrecciavano affari. La fiera calamitava molti forestieri, che tra l’altro potevano ascoltare i cantastorie, assistere ai giochi come la morra. 

   Mamma Comasia domandava se i presenti ricordassero la prima volta che fecero la salsa e tutti risero perché la ricordavano, eccome: mentre le bottiglie erano nel forno il silenzio fu scosso da vari scoppiettii; aprirono la porticella e si trovarono di fronte a tanti vetri in frantumi. Che jattura! La salsa andò in gloria. Un gatto miagolò attirando l’attenzione di tutti i convenuti. Era tigrato e aveva gli occhi spaventati. Qualcuno lo aveva lasciato dietro il cancello per disfarsene. Lo sfamarono, ma quando tentarono di accarezzarlo digrignò i denti. Da grande conservò il carattere spigoloso e passava il tempo dietro la catasta dei sarmenti, negando ogni contatto. Era anche ladro: approfittava di ogni occasione per scoperchiare le pentole, facendo fuori il contenuto. Una volta divorò il coniglio destinato come secondo al pranzo della famiglia.

   Maria Carmela ama il dettaglio e coglie tutti quelli di persone e luoghi in cui la trama si svolge. E accenna ai giochi preferiti da Nina, come l’altalena sistemata su un grosso ramo del ciliegio, il cui ombrello pendeva sul cortile. Si consumavano gli anni e d’inverno le case a cono di gelato si svuotavano: gli occupanti trovavano più comodo trasferirsi in paese. I tratturi perdevano le voci. Quando il tratturo tace si fa avanti la malinconia, ma la campagna non perde la sua malia. La campagna di Martina, la Valle d’Itria hanno un fascino che non esiste altrove. L’amata Valle è benedetta, disse tantissimi anni fa Alessandro Caroli, che fu tra i pilastri del nascente Festival, la rassegna che ha inondato di musica Martina Franca.

   Maria Carmela è anche una delicata poetessa e soffi di poesia si avvertono anche in questo suo libro, tra l’altro ricco di fotografie che aiutano il lettore a prendere più dimestichezza con il contesto. Alcune sono di Benvenuto Messia, fotografo eccellente, pluripremiato, che quella nevicata l’ha vissuta. La prima è un vigneto imbiancato. Seguono immagini dei genitori di Benvenuto, che è anche poeta, attore, fine dicitore, ciclista infaticabile, erede del papà Eugenio nell’arte delle immagini. 

   E poi gli oggetti in uso nelle case tanti anni fa, come  “’u mòneche”, una sorta di capanna con braciere, dove asciugavano i panni; pignatte “ferite” ricucite con il fil di ferro; capasoni: la pompa per il vetriolo; catena del camino con il paioli, detta camastra; un uomo infagottato che emerge da un cumulo di neve; un contadino con il ronciglione in mano; un orcio di creta per fare il bucato; un trullo con la cuspide avvolta nella coltre bianca, un ulivo saraceno, di quelli dallo zoccolo possente e dal tronco con sagoma scultorea; trulli dipinti dalla stessa Carmela … 

   Insomma un libro interessante e piacevole anche dal punto di vista della dote fotografica; con alcune poesie in lingua tradotte in dialetto martinese. Un libro che consiglio agli appassionati della lettura. La lettura che arricchisce, la lettura che resta, la lettura che dà gioia.